Riprendiamo da FB e pubblichiamo anche qui il lusinghiero commento che l'amico prof. Gerardo Vespucci ha voluto formulare sul libro di recente pubblicato.
... ha senso?
La mia risposta, lapidaria, è sì: necessario, utile e ricco di spunti per ulteriori ...
... approfondimenti!
Ma, andiamo con ordine.
Il padre della storia, come lo definì Cicerone, è stato considerato Erodoto (484-430 A.C), il quale così si esprime nell’incipit del suo immortale libro, Le Storie: Questa è l'esposizione dell'indagine (historia) che Erodoto di Alicarnasso condusse affinché gli eventi passati non cadano col tempo in dimenticanza tra gli uomini, né manchi fama alle grandi e meravigliose imprese sia dei Greci che dei Barbari, né s'ignori per quali ragioni essi guerreggiarono gli uni contro gli altri.
Gli storici successivi non si sono staccati di molto da questo approccio, tant’è che ancora oggi si fa fatica nelle scuole di ogni ordine e grado a sottrarsi allo studio degli episodi della grande Storia, quella che racconta di uomini illustri, di guerre, di battaglie, di conquiste e di imperi.
In verità, lo stesso Erodoto, oltre a descrivere le guerre Persiane (5° secolo a.C.), fu anche un attento indagatore degli usi, dei costumi e della religione delle popolazioni straniere, che i Greci chiamavano barbare.
Per fortuna, molta acqua è passata da allora e la Storia, come ricerca, è diventata tante cose ed anche microstoria: dalla storia orale a quella materiale, ma sempre più rigorosa e documentata, soprattutto a partire dal 1929, allorquando gli storici francesi Marc Bloch e Lucien Febvre fondarono la rivista Les Annales d’histoire èconomique et sociale.
Come ho scritto a pag. 252 del mio libro [Segni nel tempo, NdR], riferendomi al nostro concittadino Pompeo Russoniello, il padre di tutti gli storici locali di Sant’Andrea: con questo nuovo approccio trovarono spazio problemi apparentemente minori, come le credenze popolari; la vita quotidiana di tutti i ceti – non più solo i nobili – e di ambo i sessi; la salute (e la morte); le tecniche dei lavori dei campi; l’alimentazione e così via.
Questo bel libro dell’ingegnere prof. Rosario Cignarella, Sant’Andrea di Conza nel settecento attraverso i libri parrocchiali, appena giunto in libreria, dopo una lunga e sofferta gestazione (la prefazione del dott. Arcangelo Bellino è del 9 settembre 2019!), si iscrive in questo nuovo filone storiografico nel modo migliore e contribuisce a rendere più leggibile la modesta storia di Sant’Andrea di Conza, tanto immemorabile, quanto scarna di avvenimenti di rilievo, se non fosse per quell’intreccio stretto e fruttuoso tra feudalità e Chiesa cattolica, appunto (valgano per tutti le testimonianze del Convento, del Seminario, con la concattedrale di San Michel e dell’Episcopio)!
Infatti, il libro copre un ulteriore ambito temporale di quel progressivo definirsi della nostra comunità di cui, ormai, si cominciano a vedere i contorni, grazie ai tanti che, come lui, si sono cimentati nel tirare fuori dall’oblio (ed ecco Erodoto!) luoghi, tempi, vite delle persone, attività, credenze e operosità.
Rosario ha compiuto un lavoro di Sisifo, davvero da elogiare al massimo, anche solo per la vasta bibliografia consultata e messa a disposizione, a partire dal richiamo costante a Giorgio Cosmacini, insuperato storico della medicina, utilizzato proprio per meglio comprendere le diverse malattie causa di morte, dovute alle tante epidemie (tanto per restare in tema con l’attualità!), e a finire con tutti gli autori che hanno scritto su Sant’Andrea – rigorosamente in ordine alfabetico – da A. Bellino, a D. Cassese; da A. Cestaro, a R. Cignarella; da E. Di Lalla a F. P, Laviano; da A. Pironti, a G. Piccininno; da P. Russoniello a A. Vespucci.
Il volume si sviluppa attraverso l’analisi precisa e ricca di particolari dei libri parrocchiali che, come ricorda l’Arcivescovo nella Presentazione, erano cinque registri per ogni parrocchia, da tenere aggiornati e ben custoditi: libro dei battesimi, dei confermati nella Cresima, dei matrimoni, dello stato delle anime (delle famiglie) e dei defunti.
È lo stesso Arcivescovo a ricordare che tutto si fonda sull’autorità ecclesiastica e civile del vescovo, che si esercita soprattutto attraverso l’istituzione sinodale, volta specialmente a tradurre in pratica la riforma tridentina.
Bisogna ricordare, in breve, che il Concilio di Trento (1545-1563) si dovette contrapporre a due grandi Rivoluzioni: quella astronomica, di Niccolò Copernico (1473-1543) che col suo libro De revolutionibus orbium celestium (1543) toglieva la Terra dal centro del creato riducendolo a semplice Pianeta; e quella religiosa – più grave per la Chiesa – di Martin Lutero che provocò lo scisma Protestante e la messa in discussione dell’autorità della Chiesa romana, a far seguito dalla affissione il 31 ottobre 1517 delle sue 95 tesi alla porta della chiesa del castello di Wittenberg.
Il Concilio di Trento, in pratica, costituì la reazione della Chiesa cattolica romana – Controriforma, è stata anche definita – per rimediare alla crisi generale di fiducia nell’autorità religiosa e per costruire una scelta netta e assoluta al fine di realizzare un controllo reale dei credenti, della loro vita, dalla culla alla bara.
Con le visite pastorali, poi, il Vescovo controllava che i preti delle parrocchie tenessero tutti i registri in ordine dando prova di un potere vigile e presente, che si legittimava anche agli occhi dello stesso clero locale.
Bisogna prendere atto che seppure la Controriforma si espresse su tutta la cristianità cattolica, dal seicento alla metà dell’ottocento, in maniera pressoché identica, alla luce di una visione culturale egemonica e totalizzante, i nostri territori, del mezzogiorno appenninico pieno di problemi naturali oltre che sociali, si trovarono in una condizione di maggiore debolezza, non avendo vissuto nessuna fase di espressione di una cultura laica, né quello dell’Umanesimo e né quella rinascimentale.
I monarchi della dinastia borbonica che detenevano il potere del Regno di Napoli e di Sicilia si sono rivelati deboli e non misero mai in discussione l’ampio spazio di potere temporale tenuto dalla Chiesa, limitandosi ad agevolare tutt’al più la borghesia incipiente urbana e l’aristocrazia più colta di Napoli e di Palermo: la questione meridionale, data da quegli anni (altro che rimpianto di quegli anni dei neoborbonici!), e Sant’Andrea – bisognerà mettersi l’anima in pace - non ha mai conosciuto fino a fine ottocento né una piccola borghesia operosa e né una vera aristocrazia illuminata.
Basta considerare, per confronto la magnificenza di tanti palazzi borghesi e nobiliari, tanto imponenti in Pescopagano, per capire la nostra miseria, di immortali pezzenti allegri (ora, neppure allegri!).
Nella nostra area rimase viva, contro ogni logica spazio temporale, una chiusura di tipo medievale, con i Vescovi a regolare il potere (ecce duo gladio, con quello temporale sottomesso a quello spirituale) e i conseguenti rapporti di subalternità tra ceti meno poveri ed i veri poveri che, come scrive Rosario a proposito dei braccianti di Puglia, erano trattati peggio degli schiavi: la storia di quegli anni, per dirla in breve vede padrona la povertà, la miseria, la morte per fame.
Il libro, come già detto, è ricco di provocazioni ed offre innumerevoli dati demografici e statistici: per comprenderne l’attualità voglio riportare, con le parole dell’autore, quelli relativi alla epidemia ed alla carestia del 1816-17, quest’ultima dovuta ad una colossale eruzione del vulcano Indonesiano Tambora: a Sant’Andrea, dai 68 morti del 1815 e ai 65 del 1816 si passò ai 176 del 1817, che ridiscesero a 60 nel 1818. […] In ogni caso, presumendo per S. Andrea una popolazione di 2100 abitanti, la mortalità si può valutare in circa 1 ogni 12, ossia, praticamente, ci fu una strage. Pensando al continuo richiamo di questi giorni all’igiene delle mani si capisce esattamente quale potesse essere lo stato igienico di quelle povere persone!
Infine, sono rimasto colpito dal richiamo alle sepolture di massa nelle varie Chiese del paese, a partire dalla Chiesa madre e dalle straordinarie considerazioni di Rosario sugli odori nauseabondi che si diffondevano nell’aria tra incenso e putrescina: io ricordo ancora oggi quello strano odore che si respirava allorquando accompagnavo, negli anni sessanta, mia nonna alla tredicina di Sant’Antonio nel mese di giugno giù al Purgatorio. Confesso che aveva anche un valore narcotico, che contribuiva a creare quel clima di fede e di devozione che sapeva di antico, di altri tempi.
Mi fermo qui, ringrazio Rosario per il grande lavoro e invito tutti a leggere il libro, anche per continuare la ricerca, dopo averlo comprato ovviamente.
Gerardo Vespucci